a cura del prof. Mario Casella

1. Ricordo di Don Michele D’Elia, fondatore e direttore del Bollettino

don-micheleRicordo di Don Michele.
Per introdurre gli articoli della prima parte, non ho trovato di meglio che riproporre la relazione commemorativa da me letta nella Cattedrale di Teggiano il 16 dicembre 2008 nel corso di un incontro in onore di don Michele D’Elia nel ventesimo anniversario della morte, promosso dal Vescovo Spinillo e dal Parroco don Giuseppe Puppo, e parzialmente pubblicata nel “Bollettino Diocesano” della diocesi di Teggiano-Policastro del luglio-dicembre di quello stesso anno, pp. 366-379. Questo il testo di quel mio “Ricordo” di Don Michele D’Elia, fondatore e direttore per molti anni del Bollettino “La Voce di S. Cono”:

Autorità e amici carissimi, sono grato a Sua Eccellenza Mons. Spinillo e a don Giuseppe per aver promosso questo nostro incontro e per aver voluto affidare a me l’incarico di ricordare don Michele D’Elia nel ventesimo anniversario del suo ritorno alla Casa del Padre. Lo faccio molto volentieri, raccontandovi la sua straordinaria storia, che ho ricostruito facendo riferimento soprattutto a quanto lo stesso don Michele, a partire dal marzo 1956, ha scritto sul bollettino “La Voce di San Cono”. Nelle pagine di tale bollettino, egli amava “confessarsi” con i suoi fedeli, raccontando loro episodi della sua vita divertenti ed insieme di grande valore pedagogico, rivelatori di una non comune capacità di comunicare, di raccontare, di arrivare al cuore della gente, anche la più semplice. Nei suoi scritti, Don Michele aveva un modo di esprimersi originalissimo, caratterizzato dall’uso frequente e appropriato di parole e di espressioni dialettali, che rendevano bene le idee che voleva trasmettere e conferivano al suo discorso una singolare efficacia. Leggendo i suoi scritti, ho letteralmente scoperto aspetti della sua personalità che conoscevo solo superficialmente ed ho meglio capito me stesso, le radici della mia formazione e la gratitudine immensa che gli debbo. Spero che queste mie parole, povere e certamente inadeguate, ma sincere, affettuose e cariche di nostalgia, aiutino anche voi a ricordare e a ringraziare per il dono che Dio ci ha fatto mettendo sulla nostra strada un compagno di viaggio come Don Michele, con la sua ricca e non comune testimonianza umana e sacerdotale.

Dividerò questo mio ricordo in tre parti: la prima sarà dedicata agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, la seconda al periodo del seminario, la terza al ministero in questa parrocchia di Santa Maria Maggiore.

Gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza. Michele nasce il 5 marzo 1909 a Prato Perilli, dove abita la sua famiglia prima di trasferirsi a Teggiano paese e dove i suoi genitori, Cono e Gesualda, si guadagnano da vivere lavorando i campi.  Impara a camminare con l’aiuto di una coda di cipolla, che però non sempre regge ai suoi strattoni: talvolta, essa si spezza e “patapuffete a terra come ‘a nu gliuommaru ri lana’” (così don Michele nel 1985).

A tre anni è colpito dal tifo, una malattia al momento difficilmente curabile, ma superata in circostanze misteriose: racconterà infatti anni dopo (1965 e 1984): “Ero […] ‘scanalicchiato’, senza speranza alcuna”;  “[…] i vestitini e la cassetta funebre erano già pronti, ma un giorno che sembrava l’ultimo, mi trovavo in braccio alla nonna [Teresa De Martino], la quale mi cincillava con un pomodoro fresco, io, lo ricordo bene, le accennai di volerlo e mi fu dato, tanto per non farmi morire rasciato (di desiderio)”: “fu per me come una pennicellina salutare e mi ripresi […]. Tutto per grazia di Dio”.

Nel 1915, l’Italia entra nella prima guerra mondiale e Michele perde il papà. Con la morte del marito, mamma Gesualda si trova vedova a 25 anni e già madre di 5 figli: Maria, Michele, Antonio, Teresa e Giuseppe (che però cambia subito nome e si chiama Cono in memoria del padre). “[…] il calvario – annoterà in seguito don Michele – si fece più irto. Fummo accolti tutti dai nonni materni, Michele Capobianco e Teresa De Martino. Ben presto morì anche il nonno Michele e rimasero sole la nonna Teresa e la mamma Gesualda con 5 figli che dovettero essere, certamente, come le 5 piaghe di Gesù Crocifisso” […]. “Ciò nonostante, all’età legale, fui inviato alla Scuola ed ebbi, grazie a Dio, degl’insegnanti capaci ed irreprensibili”.

In prima elementare ha un maestro bravo, ma severissimo, che si esprime a suon di grida e mazzate. Michele riceve da lui un solenne “paliatone”, cioè una mazzata in testa accompagnata da un forte grido (o “alluccu” che dir si voglia), per non aver capito la differenza tra le unità e le decine. Ben più dolce sarà con lui, in terza elementare, la maestra Carrano. Nel 1984, don Michele la ricorderà come una donna “indimenticabile”, “una vera madre, un angelo di bontà”. Sotto la sua guida farà la Prima Comunione, a S. Agostino, all’insaputa di mamma Gesualda, forse per risparmiarle le preoccupazioni legate alle spese che la circostanza comportava (vestitino, scarpette, festicciola, regalo e via dicendo). “Avevo – scriverà Michele in seguito – i miei vestitini puliti sì, ma rattoppati ed ero quasi scalzo”.

Nel complesso, a scuola Michele non è una cima, ma se la cava: “Nonostante tutto – affermerà nel 1965 – ero promosso di anno in anno e con discreti voti”. Ma ecco il colpo di scena: ad  11 anni, due mesi dopo l’ingresso in Va elementare, lascia la scuola a causa di un altro “solenne paliatone” ricevuto non si sa da chi, ma certo non dalla maestra Carrano.

Per rendersi utile alla famiglia, cerca di imparare un mestiere: fa apprendistato come stagnino, calzolaio, sarto, barbiere, muratore, contadino; ma senza grandi risultati. Prova anche a fare il ciucciaro, un mestiere allora assai diffuso e alla portata di tutti: bastava avere un asino. Consisteva nell’alzarsi presto al mattino, recarsi nelle vicine montagne e raccogliervi della legna secca o del frascame consentito dalla Forestale, per poi venderlo e con i pochi soldi ricavati comprarsi il necessario per vivere. E così ogni giorno. A questa attività è legato un divertente episodio, raccontato dallo stesso Michele molti anni dopo. “Mi fu comprato [da mio cognato, Carmine Casella] una caddoccia di asino che sì e no valeva quattro soldi falsi, eppure era la mia Cadillac di allora. Era di una cocciutaggine eccezionale ma non superiore alla mia. Un giorno ci trovavamo in campagna, io e lui, e, mentre stavamo percorrendo una stradicciuola campestre, ad un certo punto ci trovammo davanti ad un fossetto largo non più di un palmo e mezzo, dentro cui gorgogliava, serenamente, un limpido ruscelletto. Giunti lì vicino, il mio Mister Giachessa, così chiamavo il mio asino, s’impuntò ostinatamente e non ci fu verso di andare avanti. Più io tiravo avanti, più egli cessava indietro, io a tirare e lui a cessare non fu possibile avanzare di un passo.. Allora pensai fra me e me: se il mio somaro tirato in avanti va indietro, certamente tirato da dietro andrà avanti. Proviamo. Vado indietro, gli afferro la coda e lo credereste? Spicca un salto così violento che tira dietro anche me e poi a scappare all’impazzata, sferrando calci a tutta possa […]. Dalla simpatica scenetta campestre imparai una grande verità ed è questa: non sempre le cose tirate per il giusto verso vanno avanti, come, tirate a rovescio, vanno indietro; verità che penso, equivale al tradizionale detto: l’uomo propone e Dio dispone, oppure a quell’altro: tutti i mali non vengono per nuocere. E la mia vita fu piena di simili contrasti […]”.

La fanciullezza e l’adolescenza del piccolo MIchele sono piene di episodi movimentati e divertenti come quello appena ricordato e come quest’altro da lui raccontato nel 1985: “A sette anni, su per giù, la mamma uscì per fare delle compere e lasciò noi chiusi in casa: ero io, la sorella maggiore, il fratello e la sorella minore, l’ultimo non era ancora arrivato. Siccome la mamma ritardava a venire, noi, sotto la presidenza della sorella maggiore, facemmo consiglio [per decidere] come uscire di casa… Non c’era altra via che la finestra. La sorella maggiore si affacciò e vide che… c’era molto ‘cupo’.  Perché non vai tu? Disse a me; io salgo sul davanzale e constatai che veramente c’era ‘cupo’ e, siccome io tentennavo molto a buttarmi, essa mi diede uno spintone e andai a finire sopra un ‘montone di fumiere’; non mi feci male per cui ‘hrugnulai nu pocu’ e poi andai ad aprire. Fu per noi grande festa come gli uccellini ingabbiati che acquistano la libertà. Torna la mamma e ci trova tutti fuori. Oltremodo sorpresa e meravigliata domanda: chi vi ha aperto? – So statu i’, risposi glorioso e trionfante. – E come hai fatto? – So’ zumbatu ppi la finesta!! – Si zumpatu ppi la finesta?! Diu miu, mi vogliu turnà a battià!!”.